Simone Fontecchio, l’orgoglio italiano nella NBA: “Un sogno impossibile diventato realtà”

Rappresentare un intero movimento cestistico in NBA non è un compito semplice, ma Simone Fontecchio lo affronta con la maturità di chi sa di avere un ruolo importante, soprattutto per i giovani che lo guardano come un modello. Unico italiano attualmente nella lega più prestigiosa del mondo, il giocatore dei Detroit Pistons è diventato un punto di riferimento, dentro e fuori dal campo.
In questa intervista, Fontecchio si racconta senza filtri: dall’orgoglio e la responsabilità di essere un ambasciatore del basket italiano alla sua crescita attraverso esperienze internazionali, dal rapporto con gli stereotipi sugli europei in NBA fino all’amore per l’Italia e la sua Nazionale. Un viaggio tra passato, presente e futuro, tra sogni irraggiungibili che si sono trasformati in realtà e nuove sfide ancora tutte da vivere.

La console di Detroit, Allegra Baistrocchi, ti ha definito un’ispirazione per i giovani. Tu sei l’unico italiano attualmente nella NBA. Questo è per te più un orgoglio o una responsabilità.
«Ci ho riflettuto tanto quest’anno e sicuramente un po’ tutte e due. Sono super orgoglioso di poter rappresentare l’Italia in un palcoscenico così importante come l’NBA. Penso sia una lega unica a livello sportivo mondiale, a livello di importanza, di risonanza. Però è soprattutto una grande responsabilità perché so che un sacco di giovani, soprattutto in Italia, guardano a me, al mio esempio, a come mi comporto, a quello che faccio. Quindi cerco sempre di dare il massimo tutte le volte che ho la possibilità di scendere in campo. Sicuramente è una bella responsabilità».

L’NBA per te, da piccolo, era un sogno o la realtà ha superato la fantasia?
«No, è impossibile sognarla. Devo dire la verità, io sono sempre cresciuto con una passione viscerale per la pallacanestro, già da piccolino.
Guardavo le partite, giocavo sempre nel cortile di casa col canestro, però l’NBA era talmente un qualcosa di irraggiungibile, di inarrivabile, che non ci speravo neanche. Sono cresciuto veramente soltanto con la passione per questo sport e la voglia di giocare sempre. C’era magari il sogno, un giorno, di diventare un giocatore di Serie A, che guardavo tanto da piccolo, però arrivare in NBA proprio non era neanche nei miei sogni più rosei».

Qual era il tuo idolo, se ne avevi uno, da piccolo?
«Purtroppo non ho vissuto l’epoca di Michael Jordan, sono del 95, lui ha smesso e poi ha ricominciato nel 98, quindi ero un po’ piccolo.
Le prime vere partite NBA che ho visto sono quelle di Kobe Bryant. Kobe è stato un punto di riferimento per la mia generazione, come poi dopo di lui LeBron. Sicuramente da questa parte dell’oceano, questi erano gli eroi, gli idoli a cui mi ispiravo».

Kobe è stata la superstar americana più vicina al mondo italiano, visto che è cresciuto in Italia.
«Si. Poi io, crescendo, quando avevo sui 19-20 anni, ho avuto anche la possibilità di incontrarlo, di farci due chiacchiere, quindi è stato bellissimo per me».

(Photo by Chris Schwegler/NBAE via Getty Images)

Hai viaggiato tanto, sei stato prima in Germania, poi in Spagna e adesso sei in NBA. Sei uno che esce molto dalla sua comfort zone.
«Sì, quella è stata secondo me la chiave per la svolta della mia carriera: il fatto di voler a tutti i costi uscire dall’Italia, andare in Germania, a Berlino, che sicuramente era un’occasione importantissima perché era una squadra di Eurolega che mi dava tanto spazio, fiducia, minuti, cosa che all’epoca, a 24 anni, ancora nessuno mi aveva dato. Io e mia moglie abbiamo deciso di partire, insieme alla nostra figlia maggiore, che all’epoca aveva solo otto mesi, anche se in quel momento sembrava veramente folle uscire dall’Italia: era in piena pandemia, nel 2020, col Covid, con una bambina di otto mesi, sembrava veramente di fare una cosa da pazzi.
Poi siamo andati sempre più lontano, sempre più difficile. Uscire dalla comfort zone è stata la cosa migliore che potessi fare».

Stiamo facendo un viaggio tra passato e presente, poi guarderemo anche al futuro. Ti chiedo se ad oggi nella NBA c’è ancora quella differenza abissale rispetto al basket europeo. Negli anni ’90 e 2000 si diceva che fossero due sport differenti.
«Penso che la differenza si stia pian piano assottigliando, però la differenza maggiore secondo me sta proprio nel livello che c’è qui di talento: i giocatori che ci sono qui sono sicuramente i migliori al mondo, by far. Non c’è ombra di dubbio.
Tutto quello che è il contesto NBA, inoltre, non ha nulla a che vedere con l’Eurolega. C’è una risonanza, una capacità di sponsorizzare, di advertizzare questa Lega veramente invidiabile. Quando ci sei dentro ti rendi conto di quanto sei fortunato».

La console di Detroit Allegra Baistrocchi mi ha raccontato di un’esultanza particolare di tutta la squadra di Detroit quando fai canestro. Ti è capitato spesso, quando entri dalla panchina, di segnare canestri importanti ed essere decisivo. Questa esultanza con la mano a cucchiaio, come nasce?
«C’è sempre il classico stereotipo italiano del “pizza, mandolino, mozzarella” e alcuni miei compagni, da quando è iniziata la stagione, mi hanno cominciato a dire di fare così con la mano quando segno. Allora io, per sfinimento, a dicembre scorso ho detto “va bene, la prossima volta lo faccio così siete contenti”. È capitata una partita in cui ho fatto tanti canestri, tanti punti, quindi l’ho fatto diverse volte e poi da lì è partito un tormentone.
È una cosa carina, però se penso a tutti gli italiani che vivono all’estero, cosa che io faccio ormai da cinque anni, mi viene un nervoso allucinante per tutti gli stereotipi che ci riguardano. La gestualità tipicamente italiana è rinomata in tutto il mondo e capita spesso che ti chiedano di gesticolare “da italiano”, può essere una cosa simpatica ma rappresenta comunque un cliché. Però alla fine, nel mio caso, è un bel gesto perché è legato a dei miei canestri e soprattutto è una cosa che ci unisce un po’».

Hai trovato qualcuno prevenuto nei tuoi confronti, inizialmente?
«Si, assolutamente. Soprattutto quando arrivi dall’Europa in questa Lega, a maggior ragione quando arrivi ad un’età un po’ più avanzata rispetto magari a chi entra con il draft, (io sono arrivato a 26 anni) devi veramente bypassare una serie di pregiudizi che sono proprio infiniti. Il classico stereotipo dell’europeo bianco che non salta, non può difendere, è soft.
Quindi ti trovi questo muro sempre da dover scavalcare. Sono pregiudizi che ci sono e va bene. Ne ho preso atto e ho cercato subito di abbatterli».

Tu ti sei trasferito a Detroit con la famiglia. Come l’hai trovata e come vi trovate?
«Ci troviamo abbastanza bene. Il meteo non è dei migliori. In inverno fa meno 10 fisso…però stiamo abbastanza bene.
È chiaro che per me durante la stagione è molto difficile essere presente, soprattutto per la mia famiglia, e fare cose in generale, come uscire. Quindi capita poco di avere spazio e tempo per approfondire la città. Però stiamo bene.
Poi adesso abbiamo una bimba piccola, la nostra seconda figlia, Luna, che ha sei mesi. Quindi siamo ancora belli tappati in casa per il momento».

Immagino che la comunità italiana di Detroit la possa vivere, quindi, più la tua famiglia rispetto a te che viaggi molto. È così?
«Sì e no. Come ti ho detto siamo veramente in un momento in cui ci stiamo relazionando poco con l’esterno, ma semplicemente a causa la fase della vita in cui siamo. Io non ci sono mai, lei è sempre dietro alle bambine e quindi facciamo un po’ fatica al momento.
Però per esempio gli ultimi due anni, passati nello Utah, abbiamo avuto la possibilità di conoscere tante persone, anche al di fuori della comunità italiana. Abbiamo ricevuto un affetto, un aiuto da parte di tutte le persone che abbiamo conosciuto veramente enorme. C’è una piccola comunità italiana qui che conosciamo, abbiamo avuto la possibilità di stare un po’ insieme, di conoscerci, però come ti ho detto il tempo è sempre quello che è».

DETROIT, MI – 23 OTTOBRE: Simone Fontecchio #19 dei Detroit Pistons effettua un tiro da tre punti durante la partita contro gli Indiana Pacers il 23 ottobre 2024 alla Little Caesars Arena di Detroit, Michigan.Copyright 2024 NBAE (Photo by Chris Schwegler/NBAE via Getty Images)

La stagione NBA è sempre lunghissima. Gli italiani che in passato hanno giocato in America spesso hanno avuto difficoltà a dare disponibilità alla nazionale, pur volendolo fare.
Qual è il tuo rapporto con la nazionale? Che obiettivi hai?

«Il mio rapporto è ottimo. Purtroppo ormai sono quasi due anni che non vado, perché l’anno scorso ero infortunato, ho avuto un’operazione al piede, che ho fatto a fine maggio, quindi non sono riuscito ad andare, però non vedo l’ora di poter tornare. Spero, facendo tutti gli scongiuri, di stare bene a fine stagione: è sempre un’incognita perché qui la stagione è lunga, impegnativa ed è veramente difficile arrivare a fine anno in condizioni fisiche ideali per poi andare anche in nazionale, però spero veramente di riuscirci perché è una cosa che negli ultimi due d’anni mi è mancata molto».

Quali sono gli obiettivi dei Detroit Pistons?
«Secondo me stiamo facendo molto bene, anche probabilmente al di sopra delle aspettative di dirigenza e società. Sarebbe veramente bello fare una serie play-off, sarebbe un’occasione di crescita per questo gruppo, che comunque è ancora molto giovane. Abbiamo quell’obiettivo davanti, siamo però consapevoli che manca ancora molto, quindi c’è tanto da lavorare».

C’è un giocatore avversario, così non ti faccio litigare con nessun compagno di squadra, che ti ha colpito particolarmente o che ti ha messo più in difficoltà rispetto ad altri?
«Ce ne sono tantissimi che ti mettono in difficoltà, però probabilmente uno dei giocatori preferiti contro cui ho giocato è Kevin Durant, che sicuramente fa impressione sempre».

Tornando all’inizio, tu sei una fonte di ispirazione, come ha detto la console, hai un messaggio da mandare ai giovani appassionati di basket che ti seguono?
«Come sono cresciuto, come mi sono approcciato alla pallacanestro è stato sempre qualcosa di sano, genuino. Quindi posso semplicemente augurare e spronare tutti i giovani che si affacciano a questo sport in Italia a farlo con la stessa passione, con la stessa serenità. Quando si è piccoli, si è giovani, bisogna semplicemente godere di quello che si sta facendo: godere della compagnia, dei compagni di squadra, delle amicizie che si vengono a creare e proprio del divertimento che si ha quando si fa questo sport. Io sono cresciuto così, non pensando minimamente ad andare a giocare in Serie A, in NBA, a fare i soldi, assolutamente no. Sono cose che sono venute dopo, per fortuna, però il messaggio è: divertirsi e godersela».

L’articolo Simone Fontecchio, l’orgoglio italiano nella NBA: “Un sogno impossibile diventato realtà” proviene da IlNewyorkese.

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