Fabrizio Gifuni è un attore e regista teatrale tra i più apprezzati del panorama italiano. Negli ultimi anni si è affermato come interprete capace di confrontarsi con personaggi complessi e stratificati, lavorando con registi come Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio e Paolo Virzì. Vincitore del David di Donatello come miglior attore non protagonista per Il capitale umano (2014) e come miglior attore protagonista per Esterno notte (2023), torna ora sul grande schermo con Il tempo che ci vuole, film autobiografico di Francesca Comencini presentato fuori concorso all’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il film racconta la storia personale della regista e del difficile rapporto con suo padre, il grande Luigi Comencini, interpretato proprio da Gifuni. Lo abbiamo intervistato per il Newyorkese in occasione di Open Roads: New Italian Cinema, la rassegna organizzata a New York dal Lincoln Center in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà, che ogni anno porta negli Stati Uniti una selezione delle voci più interessanti del cinema italiano.
Il film affronta il legame profondo e spesso irrisolto tra un padre e una figlia. Come si entra in una storia così personale, sapendo che si sta dando corpo a un ricordo altrui?
È una responsabilità ma anche un grande privilegio. Quando Francesca mi ha proposto il ruolo, ho sentito subito che non si trattava solo di interpretare un personaggio, ma di entrare in una zona affettiva molto delicata. Ho letto le sue parole, ho ascoltato i suoi silenzi, e ho cercato di restituire non tanto una “somiglianza” con il vero Luigi Comencini, ma un legame emotivo, una verità che potesse parlare anche a chi non li conosceva. Credo che in questo senso il film riesca ad uscire, da una storia privata, per entrare in un orizzonte universale, cioè nella storia che ciascuno di noi ha avuto con i propri genitori. È un momento profondamente identificativo, dove lo spettatore sente che quel racconto è anche il suo, non soltanto quello di un grande maestro del cinema.
La cura verso l’altro diventa, quasi per riflesso, un modo per prendersi cura anche di sé, per affrontare le ferite che da soli non si riescono a elaborare. Quanto è presente questa dimensione nel film?
Credo che il tema della cura sia profondamente radicato in questo progetto, ma è soprattutto una narrazione liberatoria. Penso al rapporto tra padre e figlia che si sviluppa lungo l’arco di una vita: dall’infanzia, con le sue fragilità, fino alla prima età adulta. C’è un momento, nel film, in cui questo legame genera una sorta di twist, un effetto specchio. Le stesse scale che la bambina saliva faticosamente, assonnata, per andare a scuola controvoglia, diventano più avanti le scale che il padre non riesce più a percorrere, perché il corpo non lo sostiene, perché è malato. Credo che quelle siano tra le scene più emotivamente potenti: in quel passaggio silenzioso, tante persone si rispecchiano. Per me però non è solo un film sulla cura, è soprattutto sul coraggio. Il coraggio di affrontare le cose non dette, di rimettere insieme i pezzi di una relazione, anche quando fa male. Di guardare un genitore non più come un’icona, ma come un essere umano, fragile, imperfetto. È in quel riconoscimento che, secondo me, nasce la possibilità di una vera liberazione, per entrambe le parti.
L’assenza di coralità è una scelta radicale. La riduzione alle due sole voci dei protagonisti amplifica il senso della loro presenza rendendo il racconto ancora più potente…
Questa mancanza è una delle qualità più profonde del film, un’intuizione rara, che solo una regista come Francesca Comencini poteva avere: scegliere di isolare due sole voci, quella di un padre e di una figlia, e di azzerare tutto il resto. Questa sottrazione costringe il pubblico a restare lì con loro, a non poter fuggire altrove. Ci ha chiusi dentro quel dialogo, dentro quelle stanze, dentro quella memoria. E quelle due voci risuonano per cento perché ogni volta che affiora un ricordo, riaffiora anche qualcosa in chi lo guarda. Questa è la forza dell’intuizione di Francesca: riuscire a trasformare un’assenza in uno spazio di risonanza.
Qual è stato il sentimento, se ce n’è stato solo uno, che ti ha accompagnato più di ogni altro nell’interpretare questo ruolo?
Una delle cose a cui ho cercato di prestare maggiore attenzione è stata l’empatia che caratterizzava Luigi Comencini. L’empatia, intesa nella sua forma più autentica, significa innanzitutto saper ascoltare l’altro fino in fondo, senza pregiudizi, in maniera libera. Sembra un gesto semplice, ma non lo è. La capacità di sospendere ogni filtro è una delle qualità che mi ha guidato nel costruire la persona più che il personaggio. È stato un punto di partenza fondamentale per me. Mi ha colpito profondamente rivedere il programma televisivo che Comencini fece per la RAI nel 1970 e che andò in onda nel 1978, I bambini e noi. In quei sei episodi lo si vede spesso all’opera, in ascolto, mentre pone domande ai bambini. Ed è proprio lì che si coglie la sua intelligenza emotiva, il suo modo straordinario di accogliere le risposte, senza forzature, con rispetto e attenzione. Ho cercato di pormi con la stessa intelligenza emotiva nell’accogliere questo ruolo.
Durante la realizzazione del film, c’è stato un momento particolarmente significativo o, al contrario, particolarmente difficile per la regista, soprattutto considerando il suo profondo coinvolgimento personale ed emotivo?
Francesca è stata straordinaria nella capacità di mantenere una freddezza, nel senso più nobile del termine, mentre lavorava. Intendo quel tipo di distacco che serve per rimanere lucidi dietro la macchina da presa, pur attraversando un’esperienza profondamente personale e dolorosa. Non vuol dire che non fosse emotivamente coinvolta, anzi. Si è emozionata moltissime volte, ma è riuscita a contenere quell’emozione finché era sul set. Questo film ci ha toccati tutti in profondità. È uno di quei progetti che creano legami destinati a durare per sempre. Il racconto è pieno di scene emotivamente intense: alcune drammatiche, altre leggere, ma tutte segnate da un peso specifico altissimo. È un film che non arretra mai di fronte alle emozioni. Anzi, è coraggioso proprio perché le affronta, le attraversa. E questo vale anche per noi attori. Spesso siamo portati a voler controllare tutto, e invece il vero cambiamento, la vera crescita, avviene quando quel controllo lo lasci andare. È difficile, ma ogni volta che affronti qualcosa che pensavi di non poter sostenere, che ritenevi troppo forte, troppo doloroso, ne esci trasformato. Non so se necessariamente migliore, ma sicuramente più adulto. È un passaggio inevitabile, e Il tempo che ci vuole è anche questo: un film che ti accompagna dentro quel passaggio. Un passaggio per il quale ci vuole Il tempo che ci vuole.
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