Davide Ippolito – fondatore de ilNewyorkese – incontra l’onorevole Christian Di Sanzo, deputato eletto nella Circoscrizione Estero (America Settentrionale e Centrale), per approfondire uno dei temi più discussi del momento dagli italiani all’estero: il recente decreto-legge sulla cittadinanza. Approvato il 20 maggio, il provvedimento ha sollevato forti reazioni e preoccupazioni all’interno delle comunità italiane negli Stati Uniti e in Canada, in particolare tra le nuove generazioni di expat.
On. Di Sanzo, andiamo con ordine: quali sono state le tappe che ci hanno portato fino a qui?
«È un argomento davvero importante, che impatta fortemente le nostre comunità di italiani all’estero. È quindi un’occasione per informare i nostri connazionali negli Stati Uniti, in Canada, in tutto il Nord e Centro America, perché questo provvedimento li riguarda direttamente.
Quando c’è stata la conferenza stampa del ministro Tajani, il 28 marzo, veniva presentato un decreto approvato in Consiglio dei ministri, che entrava in vigore dalla mezzanotte del giorno precedente. Questo decreto tracciava uno spartiacque tra chi aveva già presentato una pratica per il riconoscimento della cittadinanza prima di quella data e chi l’avrebbe fatto successivamente, tra chi aveva già ottenuto il riconoscimento e chi no.
Noi, parlamentari eletti all’estero, non eravamo stati informati. Non era stato detto nulla nemmeno al Consiglio Generale degli Italiani all’Estero che, per statuto, dovrebbe essere consultato obbligatoriamente dal governo in occasione di provvedimenti che riguardano gli italiani residenti all’estero.
È stata quindi la conferenza stampa del ministro Tajani – che si è attribuito, insieme alla presidente Giorgia Meloni, la paternità di questo provvedimento – a dare notizia della decisione, presa senza alcun coinvolgimento del Parlamento».
Diciamo che è una misura per certi versi straordinaria. Come se la spiega?
«Quando si interviene su una legge così fondamentale — la legge sulla cittadinanza è il fondamento della Repubblica Italiana e stabilisce chi è cittadino e quali diritti e doveri ne derivano — è molto raro che si ricorra a uno strumento come il decreto-legge che è concepito per situazioni di necessità e urgenza.
Questa questione esiste da moltissimi anni, e quindi non c’era una reale urgenza che giustificasse un intervento così repentino. Sarebbe stato più corretto avviare una discussione parlamentare attraverso un disegno di legge governativo che avrebbe avuto un iter più lungo, ma anche più partecipato e democratico.
Il decreto-legge, invece, deve essere convertito entro 60 giorni, con tempi molto stretti, e questo ha compresso il dibattito, che nei fatti non c’è stato».
Parlo da expat: i miei nipoti non avranno la cittadinanza italiana?
«Se i tuoi figli sono nati negli Stati Uniti e hanno sempre vissuto lì, i loro figli – quindi i tuoi nipoti – non avranno diritto alla cittadinanza italiana. Si perde già dalla seconda generazione.
È una limitazione fortissima, e devo dire piuttosto incredibile per come è nato questo provvedimento. Noi, come Partito Democratico, abbiamo presentato numerosi emendamenti e cercato di promuovere un ampio dibattito, sia al Senato che alla Camera dove abbiamo avuto una sessione lunga e articolata con vari interventi, da parte mia e degli altri parlamentari del Partito Democratico eletti all’estero.
Fratelli d’Italia e Forza Italia, invece, hanno difeso il provvedimento a spada tratta, portandolo avanti senza concessioni.
Il risultato concreto è che i figli di coloro che nascono e vivono all’estero — quindi, di fatto, la maggior parte anche dei figli dei nuovi emigrati — non potranno trasmettere la cittadinanza italiana ai propri figli. L’unica eccezione è se si trasferiscono a vivere in Italia per almeno due anni continuativi prima della nascita del figlio».
Tanti genitori ci hanno scritto: “Mio figlio ha 8-9-10 mesi (a seconda dei casi), non ho ancora fatto la pratica. Quanto tempo ho per richiedere la cittadinanza?”
«Con il nuovo decreto è stato introdotto un vincolo: i figli devono essere registrati al consolato entro un anno dalla nascita.
Fino ad ora, si poteva fare la registrazione fino al compimento del diciottesimo anno. Con questa nuova norma, i tempi si sono drasticamente ridotti e per questo, è stata prevista una disposizione transitoria: per tutti i figli minorenni già nati, c’è tempo fino al 31 maggio 2026 per registrarli.
Faccio dunque un appello a tutti i lettori del Network del Newyorkese: se avete amici o parenti con figli piccoli nati negli Stati Uniti, in Canada o in Nord America, invitateli a registrarli al consolato il prima possibile. È davvero importante farlo entro i termini previsti».
Questo provvedimento ha un impatto enorme su tutta la comunità italiana all’estero. Cosa si può fare ora, concretamente? E cosa state facendo voi parlamentari eletti all’estero? Credo, in questo caso, anche in maniera bipartisan, visto che si tratta di un tema di responsabilità diretta verso chi vi ha eletto…
«In realtà, a differenza di altri temi in questo caso l’accordo trasversale non c’è stato.
I parlamentari di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno difeso questo provvedimento, rivendicandone i contenuti durante la discussione in Parlamento. Per loro rappresenta un ritorno all’idea di patria, una sorta di recupero identitario, e sono orgogliosi di averlo promosso. Lo considerano una legge fondamentale, intoccabile.
Noi, invece, stiamo esaminando i profili di incostituzionalità del decreto, perché ci sono elementi che entrano in contrasto con la normativa precedente e anche con alcuni principi costituzionali. Si interrompe, infatti, un diritto acquisito per molte persone che avevano avviato o concluso pratiche di cittadinanza, e questo solleva dubbi molto seri.
Esploreremo tutte le possibilità giuridiche, ma non ci aspettiamo modifiche legislative finché resterà in carica questo Governo, che ha difeso la norma in modo compatto».
Quindi sarà eventualmente la Corte costituzionale a intervenire? Si capirà qualcosa nelle prossime settimane o ci vorrà più tempo?
«Ci vorranno settimane, se non mesi. Bisognerà che una persona a cui venga effettivamente negata la cittadinanza si rivolga alla magistratura, e da lì parta un percorso giudiziario che, passando dalla Cassazione, potrà eventualmente arrivare alla Corte costituzionale».
Parliamo di chi è emigrato cento anni fa, spesso discriminato, e che per diventare cittadino americano, soprattutto nel dopoguerra, ha dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana. Quelle persone, oggi, possono riacquisirla?
«Paradossalmente sì, ma non è tutto oro quello che luccica. Facciamo una digressione storica: prima del 1992, l’Italia non permetteva la doppia cittadinanza. Chi emigrava negli Stati Uniti o in Canada, spesso lo faceva per cercare migliori condizioni di vita e sfuggire alle discriminazioni. Per diventare cittadini americani o canadesi, dovevano rinunciare alla cittadinanza italiana: una vera ingiustizia.
Ora, con questo decreto, si riapre la possibilità di riacquisto della cittadinanza per coloro che l’hanno persa prima del 1992.
A partire dal primo luglio, attendiamo che i consolati pubblichino le istruzioni operative e i moduli per fare domanda. Sarà così possibile, per queste persone tornare a essere cittadini italiani.
Riceviamo lettere davvero toccanti da parte di chi ha atteso questo momento da decenni. Molti esprimono il desiderio profondo di “morire da italiani”.
Questa parte del decreto è stata effettivamente il frutto di un accordo bipartisan. Io stesso avevo presentato un disegno di legge specifico in merito, come anche altri colleghi dell’opposizione.
Purtroppo, però, la nota dolente è che questa riacquisizione sarà personale e non trasmissibile: i nipoti di queste persone, nella maggior parte dei casi nati e cresciuti negli Stati Uniti, non potranno ottenere la cittadinanza».
Una cosa che ho imparato in questi ultimi due anni è che molti cittadini italiani all’estero si sentono, di fatto, considerati cittadini di serie B. Questo decreto, nei fatti, li allontana ancora di più. Allora lanciamo un invito all’azione: cosa può fare concretamente chi ci scrive oggi? Si può protestare? Si può scrivere a qualcuno?
«Purtroppo, bisogna essere anche molto realisti.
Io credo fortemente nella rappresentanza parlamentare, nel sistema democratico della Repubblica Italiana. Le lettere sono arrivate, moltissime. Gli appelli sono stati lanciati. Le petizioni sono state presentate.
Durante l’iter di conversione del decreto-legge, però, il Governo e la maggioranza non hanno reagito a queste sollecitazioni. Anzi, paradossalmente, nonostante le manifestazioni così sentite da parte della comunità italiana all’estero, i requisiti per ottenere la cittadinanza sono stati ulteriormente ristretti.
Quindi siamo arrivati alla legge attuale.
Il mio invito, ora, è a guardare al futuro: alle prossime elezioni. Sarà lì che i cittadini dovranno valutare, con attenzione, quali forze politiche abbiano realmente a cuore la continuità e la vitalità delle nostre comunità all’estero.
Perché il rischio concreto è che, nel giro di una generazione, una gran parte degli italiani all’estero si perda. Le nostre comunità scompariranno, alimentate solo dalla nuova immigrazione annuale.
Serve quindi un appello forte a considerare, con responsabilità, chi può rappresentare al meglio queste istanze in Parlamento. Perché, alla fine, possiamo fare tutte le proteste del mondo, ma le leggi le approva chi siede in aula».
Se una persona nata in Italia si è trasferita negli Stati Uniti oltre trent’anni fa, e ha un figlio nato in America che non ha mai richiesto la cittadinanza italiana, quel figlio può ancora richiederla?
«Sì, ci sono molti casi simili. Se il genitore – nato in Italia – ha vissuto almeno due anni consecutivi in Italia prima della nascita del figlio, allora il figlio ha diritto alla cittadinanza italiana.
Se il figlio in questione ha già compiuto 18 anni, può presentare una domanda di riconoscimento della cittadinanza. Al momento, queste domande vengono gestite dai consolati. Ma il Governo ha annunciato nuovi provvedimenti: due ulteriori disegni di legge sono in discussione.
Questi andranno a restringere ulteriormente i criteri, riguardando anche nuove categorie, come i coniugi di cittadini italiani.
Un’altra novità prevista è la creazione di un Ufficio Centrale per la Cittadinanza, con sede alla Farnesina, a Roma. Sarà a questo ufficio che, in futuro, si dovranno inviare le domande di cittadinanza, non più ai consolati.
Nel nuovo disegno di legge si prevede un tempo di lavorazione medio di quattro anni per ogni pratica: oggi, teoricamente, i tempi dovrebbero essere di due anni. Quindi, con queste nuove proposte, si va verso un allungamento».
Un tema caldissimo, sul quale continueremo ad aggiornare costantemente i nostri lettori. Ovviamente daremo spazio anche ad altri punti di vista, qualora deputati eletti all’estero, anche della maggioranza, volessero intervenire o aggiungere elementi di chiarimento. La situazione, però, appare già oggi molto chiara e altrettanto delicata. Ringraziamo l’onorevole Di Sanzo, che sicuramente ci terrà aggiornati sull’evoluzione di questa vicenda.
«Assolutamente sì. Grazie a voi».
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