L’avvocato Alessandro Mignacca si occupa da anni di diritto della cittadinanza, un tema che riguarda milioni di discendenti di emigrati italiani nel mondo. La sua attività professionale lo porta a confrontarsi con una legislazione in continua evoluzione e con le difficoltà burocratiche di chi cerca di vedere riconosciuto il proprio diritto. «L’Italia è un Paese di emigrati, quindi abbiamo dei numeri considerevoli. Si stima che attualmente ci siano oltre 80 milioni di oriundi». Un dato che riflette la portata del fenomeno migratorio italiano tra Ottocento e Novecento, la cosiddetta «diaspora italiana».
Il riconoscimento della cittadinanza italiana si basa sul principio dello ius sanguinis, secondo il quale un discendente di italiani può rivendicare la nazionalità del proprio avo. La regola, tuttavia, è stata nel tempo soggetta a diverse interpretazioni. In Brasile, ad esempio, la cosiddetta “Grande Naturalizzazione” del 1889 assegnò automaticamente la cittadinanza brasiliana a tutti gli stranieri presenti nel paese. «Questo automatismo non fu preso in considerazione dal sistema giuridico italiano, in quanto veniva meno l’elemento della manifestazione di volontà». Nel 2022 la Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, riconoscendo il diritto alla cittadinanza italiana per milioni di discendenti brasiliani.
Negli Stati Uniti, invece, il percorso è stato più complesso. «Fino all’entrata in vigore della legge 91 del 1992, la cittadinanza italiana era esclusiva; pertanto, l’acquisto di un’altra cittadinanza comportava la perdita di quella italiana», spiega Mignacca. Questo ha portato molti emigrati italiani a rinunciare inconsapevolmente al proprio status, perdendo così il legame formale con l’Italia. La situazione è diventata ancora più delicata con una recente circolare ministeriale, che ha modificato l’interpretazione sulla perdita della cittadinanza per i figli minorenni di cittadini naturalizzati.
Il tema della cittadinanza è anche un riflesso dell’evoluzione della società e del diritto. Le leggi devono adattarsi ai cambiamenti demografici e culturali, un concetto che Mignacca riassume così: «Le norme devono seguire l’evoluzione sociale. Noi tecnicamente lo chiamiamo il diritto vivente». Questa prospettiva giuridica si scontra però con la lentezza delle istituzioni, che spesso non riescono a rispondere in modo tempestivo alle richieste di riconoscimento.
La cittadinanza non è solo un atto formale, ma rappresenta un legame culturale e antropologico. Esiste, infatti, il concetto di “italici”, ovvero di quelle persone nate all’estero da genitori italiani, che non sempre parlano italiano e non votano in Italia, ma che conservano un forte senso di appartenenza. Mignacca conferma questa visione: «La grande caratteristica degli italiani emigrati, soprattutto negli Stati Uniti, è proprio quella di sentirsi ancora italianissimi».
Anche la trasmissione della cittadinanza attraverso le donne ha subito nel tempo discriminazioni. Fino al 1983, la legge italiana considerava la cittadinanza come un diritto esclusivamente paterno, impedendo alle madri di trasmetterla ai figli. «La nostra Corte di Cassazione è venuta incontro per colmare questo vulnus nel 2009», tuttavia il problema persiste per chi è nato prima del 1948. Questi discendenti, infatti, non possono ottenere il riconoscimento per via amministrativa, ma devono ricorrere a un procedimento giudiziario.
Oltre alla complessità normativa, il problema più immediato resta quello dei tempi di attesa nei consolati, spesso lunghissimi. L’avvocato sottolinea l’importanza di garantire un accesso più rapido ai servizi consolari: «L’accesso al diritto passa nella maggior parte dei casi attraverso servizi pubblici, il cui accesso è organizzato dalle sedi consolari». La sua attività mira non solo a facilitare queste pratiche, ma anche a far emergere le contraddizioni e le ingiustizie di un sistema che ancora oggi esclude molti discendenti di italiani dal riconoscimento della propria identità.
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