“Canone Effimero”: la memoria che resiste sbarca a New York

Gianluca e Massimiliano De Serio, gemelli nati a Torino nel 1978, sono registi e artisti visivi che collaborano dal 1999. Tra le loro opere più note figurano Sette opere di misericordia (2011), con l’esordito al concorso internazionale del Festival del film di Locarno e tre candidature ai Nastri d’Argento. Seguono I ricordi del fiume (2015) e Spaccapietre (2020), entrambe presentate in importanti festival internazionali, consolidando la loro reputazione come autori di un cinema rigoroso, civile e poetico. I protagonisti dei lavori dei De Serio sono spesso identità sradicate o marginali, alle prese con una continua ridefinizione di sé o identità collettive, in una produzione ibrida che spazia tra cinema documentario, messa in scena e installazioni artistiche. La loro ultima opera, Canone effimero (2025), è stata presentata al Forum della Berlinale come unica produzione italiana selezionata in quella sezione. Il film è un documentario di undici capitoli che esplora tradizioni musicali e orali in via di estinzione in diverse regioni italiane, dalla Liguria alla Calabria, dalle Marche alla Sicilia. Attraverso inquadrature fisse in formato quadrato 1:1 e un uso sapiente del suono i De Serio offrono uno sguardo profondo sulle identità locali e sulle pratiche tramandate oralmente evidenziando la bellezza della resistenza culturale delle comunità del posto.  Il film è stato prodotto da La Sarraz Pictures, con il sostegno di MIC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, Film Commission Torino Piemonte – Piemonte Doc Film Fund, e Acqua Foundation. Li abbiamo intervistati per il IlNewyorkese.

Il documentario è stato descritto come un’opera che, pur essendo rigorosa nella sua ricerca etnografica, riesce a coinvolgere un pubblico più ampio grazie alla sua narrazione visiva e sonora coinvolgente, come siete riusciti ad ottenere questo risultato?

Sin dall’inizio, abbiamo voluto lavorare su un doppio registro: da una parte, l’ascolto profondo delle tradizioni orali e sonore, con il rigore di una ricerca etnografica che restituisse fedelmente i contesti e le pratiche culturali; dall’altra, la costruzione di un’esperienza cinematografica immersiva, capace di coinvolgere lo spettatore non solo intellettualmente, ma anche emotivamente e sensorialmente.Abbiamo scelto di usare l’inquadratura fissa in formato quadrato e una cura del suono per creare un tempo sospeso, quasi meditativo, che permettesse di entrare nei gesti e nelle voci delle persone filmate. In questo modo, la narrazione non è affidata a uno sviluppo classico, ma alla forza evocativa delle immagini e dei suoni, che diventano protagonisti. Forse è proprio questo equilibrio tra rigore e suggestione che permette al film di parlare anche a chi non conosce i repertori musicali o i contesti documentati. È un lavoro che nasce dall’ascolto, e che speriamo generi ascolto.

Colpisce la scelta di non affidare la narrazione a una voce unica ed esterna che possa guidare lo spettatore…

Canone effimero è un omaggio alle specificità locali, e dunque alle loro differenze — per questo non abbiamo voluto imporre una voce unica, ma lasciare che la coralità emergesse da sola, nelle corrispondenze, nelle rime interne, nei gesti condivisi. È un film che affida al linguaggio visivo e sonoro il compito di restituire dignità e complessità a tradizioni spesso ridotte a folklore, ma che sono invece vive, mobili, contemporanee. Uniformare tutto avrebbe significato tradire proprio la natura delle diverse voci e i protagonisti stessi. Per questo abbiamo scelto di valorizzare il più possibile la frammentazione, la non linearità anche a costo, a volte, di soffermarci solo brevemente su un personaggio, per poi spostarci altrove. Nonostante questo movimento, l’obiettivo era quello di restituire comunque un affresco, qualcosa che tenesse insieme le voci attraverso una corrispondenza profonda. Possiamo chiamarla una polifonia, o meglio ancora una polivocalità.

Avete messo in relazione generazioni molto diverse, dai più anziani ai giovanissimi, un gesto potente, che apre domande sul tempo, sulla memoria e sul presente condiviso. È stato un processo naturale?

L’incipit del nostro lavoro era quello di voler preservare l’immagine di un’Italia fatta di memoria, spesso invisibile, ma con l’obiettivo di mostrare la resistenza di una tradizione che dipende dalle persone che continuano a portarla avanti. Il film parla di qualcosa che è esistito in un tempo preciso, ma che oggi sta a noi decidere se lasciar morire o far sopravvivere. È un lavoro sulla memoria, certo, ma è anche un atto per mantenere in vita. Far sopravvivere le persone, i loro volti, le loro voci, le loro tradizioni, i loro modi di essere. Lavorare con due, spesso tre, generazioni così diverse è stato proprio ciò che ci ha fatto desiderare di realizzare Canone Effimero ed è stato un processo del tutto naturale: non volevamo solo raccogliere ciò che non c’è più, ma dare spazio a ciò che sta resistendo, che lotta — a volte disperatamente — per essere trasmesso. Pensiamo ai ragazzini che imparano a cantare nella maniera antica ascoltando vecchie registrazioni con i cellulari: una cultura che sembrava scomparire e che invece, grazie a loro, si mantiene viva. Questo per noi vuol dire parlare anche alle generazioni future. Non è un futuro di omologazione, ma un futuro di ricchezza e diversità culturale. L’idea di recuperare le proprie radici, perché le radici non sono un epitaffio di quello che è stato, ma sono invece una rivendicazione di quello che si vuole continuare ad essere.

Dopo un lavoro così immersivo, cosa vi portate dentro, come artisti ma anche come persone?

Ci portiamo dietro una consapevolezza diversa del tempo. Lavorare così a lungo dentro questi territori, ascoltare voci che spesso non trovano spazio altrove, ci ha costretti a rallentare, ad accordarci a un ritmo più umano. È qualcosa che ti cambia. Come artisti, ci ha fatto riflettere su cosa significhi davvero “ascoltare”, non solo registrare o documentare, ma entrare in relazione, mettersi in ascolto profondo. E come persone, ci ha lasciato una forma di gratitudine: per chi ci ha accolto, per chi ha condiviso canti, silenzi, storie. Abbiamo capito che il gesto artistico può essere anche un gesto di restituzione. E questo ci accompagnerà anche nei lavori futuri.

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