Brooklyn, esterno notte

Tre morti e nove feriti. Questo il bilancio drammatico della sparatoria avvenuta domenica notte in un locale di Brooklyn. Una persona trovata morta lì, altre due decedute in ospedale, le vittime hanno 19, 27 e 35 anni, in sostanza tutti giovani. Quarantadue i bossoli trovati, di varie armi, quattro i possibili responsabili già individuati. La notizia non può essere derubricata a violenza generica di una grande città come New York, non può essere licenziata con il solito slogan “guerra fra bande”. Infatti sono intervenuti già il sindaco della città, Adams, e il capo della polizia della Grande Mela, Jessica Tisch. Si cerca ora con ogni mezzo di evitare ritorsioni e vendette, si ricorre non solo alla repressione classica, diciamo così, ma anche alla mediazione di amici, familiari ed esponenti religiosi, così importanti nel tessuto sociale di Brooklyn.

L’ultima volta che sono stato a New York, andando verso l’aeroporto ho rivisto con calma tutti i film americani della mia vita. Siccome c’era traffico sull’arteria principale, il taxista ha fatto un giro alternativo, lungo, lento, nelle viette di un pezzo di storia della città. Case piccole, basse, colorate, ragazzi seduti sulle scale a parlare, a due, a quattro, a sei, e ogni duecento metri una chiesa o un edificio religioso con scritte e titoli vari, ma con Cristo sempre protagonista.

In termini sociologici c’è preoccupazione da parte delle autorità, perché altri drammatici episodi di violenza ci sono già stati negli ultimi tempi. Tutti diversi e tutti con spiegazioni diverse: a volte aggregazioni giovanili, a volte follie individuali, gente che è entrata in un ufficio e ha ammazzato sparando quattro persone. Ho analizzato tante volte nei miei programmi di crime il fenomeno dei mass murderers, tecnicamente chi uccide il maggior numero di persone possibili nello stesso contesto spazio-temporale. Mentre nei serial killer le motivazioni sono spesso riconducibili alla sfera affettiva e sessuale, nel caso suddetto la privazione è sociale, spesso economica o lavorativa, o solitudine da mancata integrazione sociale. Un fenomeno molto americano, poco europeo, pochissimo italiano.

E anche nell’assetto canonico della violenza giovanile per bande la differenza è tutta lì, al di là delle differenze di contesto. Ovvero l’uso facile, troppo facile, delle armi. Da noi gli analisti cercano di capire perché ormai non c’è più un gruppo di adolescenti, diciamo così deviato, che esca di casa senza coltello, a New York si spara. È un antico problema che abbiamo cristallizzato noi giornalisti europei con la strage della Columbine High School. Era il 1999 e poco è cambiato, e il tempo c’è stato per tutti, repubblicani e democratici. Meglio così, almeno evitiamo che qualcuno scagli una prima pietra inutile.

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