Ferzan Özpetek: «Condividere emozioni è come vincere l’Oscar»

Ferzan Özpetek, regista, sceneggiatore e scrittore turco naturalizzato italiano, è una delle voci più poetiche e riconoscibili del cinema contemporaneo. Con film come Le fate ignoranti, La finestra di fronte e Mine vaganti, ha raccontato l’intimità dei legami familiari, la complessità dei sentimenti e l’inesauribile potenza dell’identità, conquistando il pubblico italiano e internazionale. Il suo ultimo lavoro, Diamanti, è forse l’opera più personale della sua carriera ma anche un omaggio al mondo femminile, a quelle donne che non hanno paura di nascondere le proprie fragilità e di trasformarle in forza. Un film che nasce dalla memoria, attraversa la finzione, e si nutre di emozioni vere. È una lettera d’amore corale in cui si intrecciano sofferenze, felicità, dolore e coraggio e che sembra nascere sempre da un obiettivo ben specifico: condividere le emozioni con il pubblico. Lo abbiamo intervistato per IlNewyorkese in occasione della rassegna Open Roads: New Italian Cinema, presentata al Lincoln Center di New York, dove Diamanti è stato uno dei protagonisti rappresentanti il cinema italiano.

L’arte va condivisa, se non è condivisa, non è più nulla. È per questo che hai scelto di mostrare Ferzan in prima persona davanti la macchina da presa, e non soltanto il regista? Hai sentito il bisogno di condividere anche una parte di te stesso?

Ho sempre raccontato ciò che conosco. E per questo devo dire grazie a tutte le persone che sono entrate nella mia vita e che sono rimaste. Il film è nato proprio così: da un gesto che mi accompagna da sempre. Quando ho un progetto in testa, la prima cosa che faccio è chiamare gli attori, raccontare loro la storia, e poi scrivere. Molti dei miei film nascono dagli attori: parto da una traccia, ma è l’incontro con loro a dare forma alla sceneggiatura. Per me è meraviglioso quando vita e finzione si intrecciano, si confondono. Questo film nasce da un luogo e da un momento che conosco intimamente: gli anni della mia giovinezza, quando muovevo i primi passi come aiuto regista. Accompagnavo spesso registi, costumisti e attrici in una sartoria straordinaria di Roma, osservando tutto ciò che mi accadeva intorno. È stato in quel periodo, lavorando accanto a Piero Tosi, che ho cominciato davvero a formarmi. Lui è stato una figura fondamentale per me. Quella sartoria era uno spazio sacro. Lì ho imparato a guardare. Ho compreso l’importanza della luce, la forza del dettaglio, il potere del colore – capace di raccontare più di un dialogo. In sartoria si impara questo in modo eccellente: l’arte di osservare, prima ancora di dirigere. Con Diamanti ho voluto ricreare proprio quell’atmosfera: il pudore, la delicatezza, la bellezza di toccare l’invisibile.  E ho voluto farlo anche per rendere omaggio a Piero Tosi, Gabriella Pescucci, Maurizio Millenotti, persone straordinarie, che hanno fatto la storia del cinema italiano. Interpretare me stesso mi ha permesso di guidare lo spettatore all’interno di questo viaggio nel tempo, offrendo uno sguardo personale e autentico sul mondo che volevo raccontare.

Diamanti è un film corale con un cast di diciotto attrici. Come è nata l’idea di un progetto così ambizioso?

L’idea di realizzare un film interamente al femminile mi accompagnava da tempo, ma non avevo mai avuto il coraggio di concretizzarla. Pensavo fosse troppo complesso. Poi, parlando con Luisa Ranieri, è emersa questa volontà condivisa. Ho ripensato ai miei anni da aiuto regista, quando osservavo quel mondo popolato da donne straordinarie. Così ho deciso di raccontare quella realtà, celebrando la forza e la resilienza femminile. Perché le donne sono superiori. Non ho mai avuto dubbi su questo. Hanno una sensibilità che mi commuove, una capacità di ascolto, di sopportazione, di lotta, che è straordinaria. In Diamanti ci sono madri, figlie, amiche, sorelle: donne che si curano a vicenda, che si feriscono, che si rispecchiano. Il fatto è che ho sempre ritenuto che il lato femminile, anche quello che c’è negli uomini, sia il lato importante della vita. Sulla carta sembrava impossibile portare a termine un racconto del genere, ma la verità è che non ho avuto nessuna difficoltà sul set. Tutto ha funzionato con una naturalezza quasi miracolosa. Credo che dipenda dal clima che si crea: mi prendo cura delle persone che lavorano con me. E quando gli attori lo capiscono, si fidano. Sanno che li proteggo, che li guardo con affetto. È stata un’esperienza straordinaria. Le attrici hanno portato sul set una carica emotiva e una complicità unica. Spesso, dopo le riprese, ricevevo lunghi messaggi vocali in cui condividevano riflessioni e emozioni. Si è creata una vera comunità, dentro e fuori dal set.

Questa alchimia con gli attori non è sempre facile o naturale, come riesci a creare un rapporto così forte?

Io non amo le prove, i meccanismi troppo strutturati. Lascio che siano loro, gli attori, a portarmi dentro la storia. Con le donne, poi, si crea una sintonia immediata. Non mi interessa la performance perfetta, mi interessa l’anima. Il resto si aggiusta. Con alcune attrici c’è un rapporto quasi telepatico. Mi basta vederle entrare nel set per capire se c’è o non c’è quella verità che cerco. Quando accade, è una cosa potente. E questa volta, più della storia, volevo raccontare l’intesa che instauro con le attrici, con le donne. È un’intesa diversa da quella con gli uomini. È più profonda. Le donne hanno un sesto senso sulle cose, non hai bisogno di parlare né di spiegare, ti intendi subito. Sono preziose, come Diamanti. Me l’ha suggerito Mina questo titolo. Un giorno mi disse: “Le donne sono come i diamanti, resistono a tutto”. Aveva ragione. Sono forti, preziose, brillano anche nella sofferenza. Mi è sembrato perfetto per raccontare queste protagoniste: donne che affrontano la vita con grazia e determinazione. Diamanti è la loro storia, ma anche la mia.

Ed anche la storia di tre donne in particolare a cui è stato dedicato il film: Monica Vitti, Virna Lisi e Mariangela Melato …

Sono tre icone del cinema italiano che ho sempre ammirato. Avrei voluto lavorare con loro, ma non ne ho avuto l’opportunità. Le avevo incontrate tutte, e avevo pensato di scrivere per loro dei personaggi in altri film. Chiamai Mariangela Melato: sembrava felice, interessata. Per lei avevo pensato a un ruolo in Magnifica presenza, ma mi rispose con una frase che mi è rimasta impressa: “Ormai è troppo tardi…”. Lo stesso accadde con Virna Lisi per Mine vaganti, il cui ruolo lo avevo dato a Ilaria Occhini. Quando la richiamai, era tardi anche per lei. Monica Vitti, invece, l’ho incontrata quando ho ritirato il Globo d’Oro per il mio primo film, Il bagno turco. Si avvicinò, mi fece i complimenti e mi disse: “Lei farà tanti altri film bellissimi”. In quel momento, del premio non mi importava più. Quell’incontro, breve ma intenso, era ciò che davvero contava. E quanto avrei voluto che avesse un seguito. Con Diamanti, ho voluto renderle presenti, omaggiando il loro talento e la loro eredità artistica.

E cosa resta a te, di Diamanti?

Una grande gratitudine. Per il cinema, per la vita, per le donne che ho incontrato e che hanno cambiato il mio modo di guardare. Questo film è un gesto d’amore. Un diamante vero: non perfetto, ma lucente. È fragile, come tutto ciò che conta davvero. Condividere le mie emozioni con il pubblico, è tutto ciò che conta per me. È il motivo per cui faccio cinema. Io non rincorro gli incassi. Il premio più bello per me arriva dallo spettatore che si commuove, che si riconosce. Quando mi dicono che guardo gli attori come nessun altro, capisco che ho fatto bene il mio lavoro. E quello sguardo, soprattutto verso le donne, è ciò che mi lega a loro in modo così profondo. È come vincere l’Oscar, ma ogni giorno.

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