Nel cuore del Piemonte germoglia il riso. E fin qui non ci sarebbe nulla da raccontare, se non fosse che il cereale più largamente utilizzato al mondo per l’alimentazione umana, qui assume i connotati d’eccellenza gastronomica di cui soltanto il made in Italy è capace. Il riferimento è al prelibato riso Acquerello, tanto amato dagli chef stellati quanto sempre più ambito dalle esigenti forchette dei palati d’ogni parte. Ne parliamo con Anna Rondolino, figlia di Piero Rondolino, fondatore del marchio.
Quali sono i volti della “famiglia Acquerello” oggi?
Io sono la più piccola dei figli e svolgo le mie mansioni sul lato comunicazione, ufficio stampa e marketing sociale; poi mio fratello Rinaldo, il maggiore, si occupa del lato agricolo, mentre Umberto cura il comparto ricerca e sviluppo. Dopo aver studiato marketing e comunicazione a Milano presso l’Accademia di Comunicazione Grafica Pubblicitaria ed esser rimasta lì a lavorare per tre anni, sono tornata a Torino per portare avanti l’azienda di famiglia che continua ad essere in forte crescita. Così mi sono inserita, finalmente, nel contesto campagnolo, facendo ogni giorno avanti e dietro per Livorno Ferraris, dove abbiamo la famosa Tenuta Colombara attorno alla quale si svolge l’intero processo di lavorazione del nostro riso. Per adesso nel team comunicazione siamo in cinque.
Riso Acquerello è un marchio che vive soprattutto di pubblicità sui social. Come mai non avete mai spinto sull’advertising di massa?
Riteniamo che uscire con adv cartacei o televisivi sia lontano dai nostri target di riferimento, poiché quel tipo di cliente ricerca un prodotto nazionalpopolare; differente da quello che propone riso Acquerello. Nonostante cresciamo il 2% ogni anno, riteniamo di non essere adeguati a un contesto come la gdo, preferendo restare realtà di nicchia. Per questo a livello di comunicazione, oltre ad essermi impegnata nel packaging, ho approcciato sin dall’inizio ai social come Facebook e Instagram in modo non convenzionale, impostando sin da subito Instagram come un’entità volta al repost più che alla content creation. In tal modo, le persone affezionate al nostro prodotto hanno iniziato a postare piatti e considerazioni che noi divulgavamo ai nostri followers, che oggi sono 54mila. Questa è stata la chiave che ci ha concesso di dare maggior visibilità al brand per il consumatore finale, nonché di crescere a livello di visibilità con repost e condivisioni da parte degli utenti social. Per questo, siamo anche usciti con il libro “Tutti i colori di Acquerello”, al fine di ringraziare i nostri followers.
In quanto tempo è successo tutto questo?
Tale senso di comunità è venuto a crearsi nel giro di sette anni. Alla fine non è stato difficile: abbiamo evitato di comportarci come la classica azienda che si autocelebra, preferendo condividere l’altrui celebrazione senza porre richieste o pressioni.
Riso Acquerello nasce in un luogo da sogno. Ma cos’è Tenuta Colombara?
Una vecchia cascina nel comune di Livorno Ferraris, in provincia di Vercelli, che fino agli anni ’70 è stata autosufficiente. Era una corte chiusa dove vivevano trentatre famiglie, con tanto di scuola, sellaia, fabbro, sarta e dormitorio delle mondine. Le persone della Colombara vivevano con quello che producevano, infatti vi erano centinaia di capi di bestiame come vacche e cavalli. Adesso, naturalmente, non ci vive nessuno, ma la tenuta si popola sin dalle prime ore del mattino nei periodi di semina e raccolta, ed in loco abbiamo anche gli uffici oltre alla riseria e ai campi: 130 ettari di nostra proprietà dove il riso viene seminato, coltivato, raccolto, essiccato ed invecchiato. Siamo 22 dipendenti, eppure il trattorista resta uno solo da anni e gestisce tutto da sé.
Alla tenuta non vive proprio nessuno?
A dire il vero da oltre trent’anni vi risiede la scultrice tedesca Claudia Haberkern, trasferitasi per amore del fidanzato che si era fermato lì un’estate. Poi la storia d’amore finì ma lei decise di restare qui, continuando a lavorare alle sue sculture. Anche se la nostra struttura non è aperta al pubblico organizziamo delle visite guidate, e lei segue quelle svizzere e tedesche.
Ma oggi la Colombara racconta ancora qualcosa?
Abbiamo ricostruito gli spazi così come se le famiglie fossero andate via da poco: è una sorta di museo-non-museo che, difatti, chiamiamo Conservatorio. La sensazione è quella di entrare in una cascina abbandonata, dove tutto è fermo agli anni ’70, ma tutto ciò è accaduto con la massima spontaneità, poiché tante persone di Livorno Ferraris che discendono da vecchi abitanti della tenuta o dalle mondine, hanno pian piano cominciato a portarci oggetti come fotografie, valigie, cappelli e tanto altro. Tutti reperti trovati nelle cantine delle nonne che ci sono stati donati e che non volevamo chiudere in un magazzino. Queste persone ci hanno aiutato a risistemare tutto in modo da rendere lo scenario della Colombara quanto più verosimile all’autentico.
Perché il vostro riso è protetto da brevetto internazionale?
Mio padre ideò il riso Acquerello, poiché assaggiando la gemma del riso, che è la parte più importante del chicco da cui rigerminano le nuove piante, si rese conto che aveva un retrogusto di nocciolina. Dopo accurate analisi, scoprì che nella gemma si concentrano la maggior parte dei nutrienti del riso. E pensare che un tempo essa veniva usata come mangime per gli animali! In quel momento mio padre riesumò alcune vecchie macchine risicole, mescolando per sfregamento il riso bianco con un certo quantitativo di gemma, la quale durante la lavorazione disperde una parte un po’ oleosa, sciogliendosi rapidamente a beneficio del chicco che la assorbe. Riso Acquerello è l’unico riso bianco con valori nutrizionali migliori di quello integrale (tranne che per la fibra) ma, a differenza di quest’ultimo, può essere impiegato per preparare i risotti vista la resistenza alla cottura. Questo procedimento e la relativa scoperta è stato, quindi, brevettato.
Qual è il vostro posizionamento sul mercato?
Fino a dieci anni fa vendevamo per il 70% all’estero e per il 30% in Italia, ma oggi siamo intorno a un 50% e 50%. C’è da dire che gli altri Paesi vent’anni fa sono stati i primi ad accogliere positivamente il nostro prodotto. Ad esempio, da sempre vendiamo tantissimo in Spagna; un mercato difficile poiché produce il riso bomba per la paella, ma dove chi lavora nel settore ha scoperto che il carnaroli assorbe di più. All’estero, infatti, il 90% dei nostri clienti afferisce alla ristorazione e a Chicago, negli Usa, abbiamo uno dei nostri maggiori importatori. A differenza che in Italia, dove ci sono molte botteghe specializzate, negli Usa facciamo fatica ad arrivare direttamente al consumatore, poiché vi sono perlopiù grandi supermercati che, per strategia aziendale, non consideriamo.
Ti occupi di packaging, ma perché l’Acquerello non è sottovuoto in un cartone come i suoi simili?
La scelta del barattolo nasce da uno studio di mio padre, non solo amante di storia dell’arte ma anche laureato in architettura. Aveva letto che ai tempi della Cina imperiale, il riso veniva conservato in latta affinché gli imperatori non ne patissero mai l’assenza. Mio padre capì che a livello di conservazione alimentare, questa sarebbe stata la scelta migliore. Oggi, infatti, siamo passati alla conservazione in atmosfera controllata sotto azoto per proteggere al massimo la gemma, che potrebbe tendere a irrancidire. L’immagine impressa raffigura il luogo di produzione, circondato dalle risaie e dalle montagne, e resta la stessa da sempre: è una fotografia di mio padre su cui, di tanto in tanto, apportiamo impercettibili modifiche.
L’articolo Il know-how italiano in un chicco di riso proviene da IlNewyorkese.