Mario Ursumando racconta Audace: «Volevo che anche a New York si potesse sentire il sapore di casa»

Mario Ursumando ha costruito la sua carriera nella ristorazione attraversando confini e cucine, ma sempre con lo stesso obiettivo: offrire un’esperienza autentica e curata nei minimi dettagli. Dopo anni da general manager di Ribalta, uno dei ristoranti italiani più noti della città, ha deciso di mettersi in proprio e aprire Audace, un locale che in poco tempo ha conquistato il pubblico newyorkese e il plauso del Gambero Rosso. In questa lunga chiacchierata ci racconta la sua storia, le difficoltà di aprire un ristorante a New York, i compromessi con il palato americano (sì, anche il pollo alla parmigiana), e il segreto che rende speciale non solo il suo locale, ma anche il suo modo di lavorare.

Mario, partiamo dall’inizio: raccontami un po’ la tua storia prima di arrivare a New York. Tu vieni da Napoli, giusto?

Sì, esatto. A Napoli ho sempre lavorato nel mondo della ristorazione, sin dai tempi del liceo e dell’università. Ho iniziato come bartender in un locale piuttosto noto nel mio quartiere. Da lì è nata la mia passione per questo lavoro, che mi ha poi portato in Inghilterra, a Londra, dove ho vissuto quasi cinque anni. Ho lavorato in diversi bar e ristoranti, l’ultimo dei quali è stato lo Sky Garden. Facevo parte del team di apertura di questo rooftop nella zona di Bank: un posto davvero incredibile, un giardino tropicale nel cielo.

Bellissimo, ho visto le immagini.

Sì, sì, molto bello davvero. Però, dopo un po’, Londra mi aveva un po’ stancato: il clima, il cibo… insomma, avevo bisogno di un cambiamento. Ho fatto una breve parentesi in Spagna, per riprendermi un po’ di sole, ma anche lì non riuscivo a sentirmi realizzato professionalmente. Così sono rientrato a Napoli e, parlando con una mia amica, è saltata fuori la possibilità di applicare per lavorare a Walt Disney World. Quel giorno stesso ho mandato il curriculum e, quasi subito, sono stato chiamato per il colloquio: mi hanno preso.

Lo Sky Garden di Londra | via Shutterstock

Quindi sei arrivato negli Stati Uniti non tanto per un sogno americano, ma per una concreta opportunità lavorativa.

Esattamente. Ho lavorato a Orlando, in Florida. Una città molto americana, ma interessante. L’esperienza alla Disney è durata circa un anno e mezzo. Da lì, come spesso è successo nella mia vita, una cosa ha portato all’altra: dopo poco tempo, Ribalta mi ha proposto di diventare general manager in una loro location ad Atlanta. Così, quasi senza passare da casa, sono ripartito subito per questa nuova avventura. Poi, nel 2019, mi hanno offerto di trasferirmi a New York come general manager nella loro sede principale.

E lì sei rimasto per cinque anni, giusto?

Sì, un’esperienza bellissima. Ribalta è un ristorante molto conosciuto e un punto di riferimento per la comunità italiana a New York. Ho conosciuto tantissime persone, creato molte connessioni e acquisito tantissime competenze. Ovviamente, mi sono anche rimboccato le maniche: nulla è stato facile, ma ho imparato moltissimo.

Quando è arrivata l’idea di aprire il tuo ristorante?

Dopo circa quattro anni a New York. È stato anche un momento delicato a livello personale: mio padre è venuto a mancare, e ha lasciato una piccola eredità. Insieme alla mia famiglia abbiamo deciso di investirla in me. Lavoravo nella ristorazione da quando avevo diciotto anni, oggi ne ho trentaquattro. A gennaio 2024 ho deciso di fermarmi e cercare una location. Ma aprire un ristorante da zero a New York è molto difficile: senza una guida, senza qualcuno che ti accompagni, ci si scontra con mille difficoltà, dai requisiti per ottenere un locale e le licenze, alla conoscenza delle leggi americane specifiche del settore.

Eppure, il ristorante si chiama Audace…

Esatto, non è un caso. Io, mio fratello Francesco e mia moglie Claudia abbiamo creduto nel progetto e abbiamo camminato per giorni interi in città alla ricerca di un posto giusto. All’inizio eravamo concentrati su Tribeca, una zona ricca e molto frequentata da residenti più che da turisti. Avevamo quasi firmato un contratto, ma all’ultimo il proprietario ha cambiato idea: non voleva un ristorante italiano. È stato un colpo, ci avevamo creduto tanto.

E dopo quella porta chiusa?

Mi sono rimboccato le maniche. A febbraio ero già da un po’ senza lavoro e ho iniziato a collaborare con Tarallucci e Vino come director of operations, gestendo quattro ristoranti e tre spazi eventi. Una bella esperienza, ma avevo le idee chiare: volevo il mio locale. E così, per una serie di coincidenze fortunate, abbiamo trovato quello che sarebbe diventato Audace. Era uno spazio già visto a inizio anno, che doveva essere preso da un gruppo con una stella Michelin. Ma l’accordo è saltato, e il proprietario dell’hotel ha deciso di darlo a noi. Uno spazio grande, su Park Avenue, con quasi cento coperti: perfetto.

E oggi siete stati premiati dal Gambero Rosso. Com’è stato possibile raggiungere questo risultato in così poco tempo?

È il risultato di un lavoro incessante e di una cura meticolosa per ogni dettaglio. Dall’ideazione di un menu italiano fine dining, con ingredienti ricercati e spesso molto costosi, al design del locale, arricchito dall’uso dell’intelligenza artificiale. Ogni elemento, dall’impianto audio alle luci e alla musica, è completamente controllabile tramite il telefono. Lo stile che abbiamo scelto rappresenta un perfetto equilibrio tra modernità e tocchi rétro, ma la vera forza del progetto risiede nella sua essenza. In questi anni a New York, ho costruito una rete di contatti che si è rivelata fondamentale per il successo. Ogni aspetto è stato progettato con estrema attenzione, senza lasciare nulla al caso.

Il vostro target sono soprattutto gli americani, giusto?

Esatto. Il nostro ristorante si trova a New York, una delle città più competitive al mondo, e deve confrontarsi con uno stereotipo dell’Italia ben definito. Non ci rivolgiamo solo agli italiani in vacanza, ma anche agli italiani residenti e agli americani in generale. Questo ha richiesto qualche compromesso. Per esempio, abbiamo aggiunto l’opzione “Make it Parm” sul menù. Ricevevamo continue richieste di pollo alla parmigiana. È una necessità: siamo su Park Avenue, non a Times Square. Bisogna anche rispondere al gusto di chi vive qui.

Ma avete comunque un’identità forte.

Sì, con uno chef che ha lavorato in ristoranti con tre stelle Michelin, avevamo sviluppato un menù molto creativo, a tratti provocatorio. Uno dei primi piatti era uno spaghetto al pomodoro con ketchup – ovviamente rivisitato con ingredienti di qualità. Però poi abbiamo capito che serviva più tradizione: anche gli italiani, quando mangiano fuori, cercano sapori familiari. Abbiamo semplificato il menù, mantenendo alta la qualità e l’identità.

Qual è il vero segreto di Audace?

L’energia. L’energia delle persone che ci lavorano. L’accoglienza, l’attenzione al cliente, la cura: tutto parte da lì. Anche se investi milioni in un locale, se non c’è anima, non funziona. Noi siamo sempre in sala, cerchiamo sempre di creare una piccola connessione con chi viene a trovarci.

E il tuo, invece, di segreto?

Passione e pazienza. L’apertura del mio primo locale è stata un’esperienza che ha richiesto sacrifici, impegno e una continua crescita personale. Sono una persona estremamente paziente, capace di restare calma quando necessario, e molto attenta ai dettagli. Ma soprattutto, la passione: senza passione per quello che fai, nulla può funzionare davvero. Credo fermamente che “passione e amore siano la chiave del successo”. E sono convinto che si applichi in qualsiasi campo.

Che consiglio daresti a chi vuole aprire un ristorante a New York?

Innanzitutto, di lavorare almeno due anni in città per capire come funziona. Ma soprattutto: ascoltare. Non avere la presunzione di sapere tutto. Bisogna guardarsi intorno, accettare critiche, feedback, cambiare idea se serve. New York cambia velocemente: ciò che funzionava due anni fa, oggi potrebbe non servire più. Serve flessibilità e umiltà.

Ultima domanda: la pasta col ketchup l’hai assaggiata?

(ride) Sì, l’ho assaggiata. Era un piatto particolare, fatto bene, con pomodorino giallo datterino e un aceto speciale. Però ti dico la verità: sono tradizionalista. Adesso abbiamo in menù uno spaghetto al pomodoro con corbarino di Amalfi. Quei sapori mi riportano a casa, a Ischia, a Sorrento. Anche a New York, voglio che un italiano possa sentirsi di nuovo in Italia.

E della cucina italo-americana, c’è qualcosa che ti ha sorpreso in positivo?

Guarda, la cucina italo-americana l’abbiamo portata noi. Lo spaghetto con le polpette, per esempio, ha radici abruzzesi. Quindi non posso dire che non mi piace. Alcuni piatti non li ordinerei mai fuori, tipo i rigatoni alla vodka (ride), ma se fatti con prodotti italiani di qualità possono anche funzionare.

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